In genere quando si parla di trasferimento tecnologico lo si fa per domandarsi se la ricerca scientifica svolta nelle università e nei centri di ricerca abbia sufficiente ricaduta sul sistema produttivo e quindi sulla occupazione.

Domanda importante, anche se a volte ci si dimentica che per fare trasferimento tecnologico bisogna avere qualcosa da trasferire. Bisogna cioè essere prima in grado di inventare e di scoprire cose nuove e poi di trasformarle in innovazione. Ovvio? Può essere, ma l’essenza del problema sta tutta lì: la ricerca applicata non esiste senza ricerca di base. Senza ricerca libera, «blue sky» o «curiosity driven» che dir si voglia, può esserci miglioramento ma non «discovery».

Ecco perché gli scienziati continuano a sostenere che l’investimento nella ricerca di base è indispensabile – conditio sine qua non – per poter arrivare alla innovazione. È come aspettarsi di raccogliere frutti senza innaffiare la pianta. Chi non comprende questo è miope o ignorante.

Il finanziamento, tuttavia, non è che uno, seppur indispensabile, dei prerequisiti della creatività. Ce ne sono almeno altri due.

Oggi i migliori risultati sono il prodotto di una sorta di ossimoro: massima specializzazione verticale e massima capacità di comprensione orizzontale. Serve cioè scambio e comunicazione, co-working tra esperti e un approccio convergente da angolature differenti su uno stesso tema (energia, alimentazione, trasporti, inclusione sociale, medicina ecc.).

Essenziale poi è la capacità di comprendere l’inatteso. In una lettera datata 28 gennaio 1754 Horace Walpole usò per la prima volta la parola «serendipity». Walpole disse di averla ricavata dalla antica storia persiana dei Tre Principi di Serendip, che – cito testualmente – «were always making discoveries, by accidents and sagacity, of things they were not in quest of», cioè stavano sempre facendo scoperte, per fortuna e arguzia di cose delle quali non erano alla ricerca. Molte delle scoperte che oggi utilizziamo sono frutto di scoperte accidentali (si pensi ai cristalli liquidi, alle microonde, alla penicillina e altro ancora). Scoperte impreviste ma possibili perché il ricercatore, che stava cercando altro, era mentalmente e culturalmente predisposto a cogliere l’inatteso. Scoperte accidentali ma non casuali. Non errori, passi falsi, o risultati da buttare ma porte aperte improvvisamente e in grado di condurre i preparati e coraggiosi ad avanzamenti importanti.

La domanda è: il nostro sistema formativo è adatto a stimolare la creatività? Si direbbe di no. I collegamenti trasversali sono quasi impossibili, le attività di studio e ricerca trans-disciplinari scoraggiate. I dipartimenti universitari usciti dalla riforma Gelmini e i corsi, dalla triennale al dottorato, seguono la logica dell’arcipelago: isolette in cui le diverse discipline sono tenute separate da tratti di mare spesso insidiosi e poco navigabili. Il sistema è impostato su una visione verticale delle discipline. Lo è nella struttura e lo è – drammaticamente – nell’impianto dei sistemi di valutazione e quindi nelle prospettive di ingresso e carriera e di promozione. Scatole rigide dove la chimica, la fisica, la matematica, la filosofia, l’economia, la storia, la biologia, la linguistica, ecc. vengono impacchettate. Con questa impostazione siamo largamente disallineati rispetto alle esigenze di un mondo che cambia in maniera esponenziale e che chiede capacità trasversali per affrontare problemi globali.

E torniamo al trasferimento tecnologico. È vero che le imprese non possono permettersi che nei loro laboratori R&D si faccia ricerca «blue sky», o si insegua il pensiero laterale, o si lasci spazio alla «serendipity». Questo è comprensibile. Ma l’università può e deve farlo, anche nell’interesse del sistema produttivo. Solo così sarà possibile mantenere pieno il serbatoio di idee e di nuove opportunità da trasferire quando e se servirà. La vera sfida oggi è quella di realizzare l’ossimoro: competenza disciplinare e collegamento laterale. Non iperspecializzazione ma apertura mentale e capacità di cogliere l’inatteso. Abbiamo bisogno di formare giovani in grado di riconoscere l’attimo fuggente che può consentire un balzo in avanti.

Fonte: Indire